mercoledì 25 maggio 2011

Su di me...

galassia Ciao a tutti,
sono Estele. Ho scelto questo nome per il suo significato: Estele è un nome elfico che significa Speranza.
Sono una ragazza come tante, ho 28 anni, intraprendo un percorso di studi, e, devo dire purtroppo, sono stata vittima di abductions dall’infanzia sino a due anni fa. Questo è ciò che mi rende diversa da tante persone. Tuttavia, sono felice di aver preso coscienza del mio problema, e anche di averlo vissuto. Perché l’esperienza insegna, fa crescere e maturare. Non scriverò adesso lo scopo preciso per cui condividerò con voi la mia vita, la mia esperienza, il mio viaggio, nel quale ho trascorso momenti di panico, di instabilità emotiva, ma anche di gioia e di profonda compassione per me stessa. Un viaggio che mi ha offerto la possibilità di conoscere delle persone veramente straordinarie, primo tra tutti Corrado Malanga, al quale, a tutt’oggi, sento di dovere la vita. Lascerò che siate voi lettori, che ringrazio, a trarre il messaggio che velatamente emergerà, riga dopo riga.

Ma intanto,  facciamoci quattro risate con la storia che parla di com’è cresciuta Estele. Estele era una bambina vispa e a dir poco scatenata, spesso sembrava non si stancasse mai. La cosa che amava di più, era correre, correre veloce, quasi come il vento, correre così tanto per apprezzare anche solo per un istante la sensazione del non sentire più i piedi per terra, le sembrava così di poter volare (inutile menzionare le infinite cadute e ruzzoloni a seguito di questi esperimenti supereroici!). Nutriva un amore infinito per gli animali: divideva le sue caramelle con le formiche, piangeva e seppelliva le mosche uccise dalla nonna, raccattava tutti i cani o i gatti del paese che accudiva con i suoi amichetti. Aveva una forte simpatia per le lucertole, adorava quegli animaletti che assomigliavano così tanto a dei piccoli dinosauri, quelli che vedeva nei film o come pupazzetti, tant’è che spesso riusciva a raccoglierle nella mano e se le lasciava camminare addosso, le osservava. Giocava a fare le torte con la terra e il tufo, a costruire case sugli alberi, a calcio coi maschietti, e, a volte menava le mani, ad esempio quando qualcuno le faceva del male, o faceva del male a persone a lei care. Sapeva imporsi e dettare legge in modo incredibile, una comandante, al punto che scappò di casa a soli 4 anni per un litigio, per poi essere ritrovata dopo un bel po’di ricerca dai genitori. Amava, ed ama tutt’ora, profondamente la musica, che ha imparato a quell’età, e, nonostante la severità del suo maestro, le piaceva molto passare del tempo lì a studiare, nonostante i lacrimoni che seguivano i vari rimproveri.

Aveva delle fantasie particolari. Era come se avesse una sorta di amico immaginario. Questo amico immaginario erano per lei delle mani bianche. Non lo raccontò mai a nessuno, neanche a mamma e papà, sull’esistenza di queste mani bianche che in alcune occasioni la proteggevano, la accudivano. Le piaceva immaginare di poter avere dei poteri paranormali. A volte prendeva un cucchiaino e stava diverso tempo a fissarlo, sperando che potesse a un certo punto piegarsi: la telecinesi la affascinava incredibilmente. Crescendo ha purtroppo sofferto, ma sin dalle scuole medie, ha sempre pensato che la sofferenza fortificasse. E’ stata sempre un’empirista. La necessità di indossare il busto per problemi alla schiena le ha impedito di proseguire gli studi paralleli al conservatorio. Fu uno dei periodi più bui per lei, spesso non usciva di casa perché con quell’arnese indosso si sentiva una specie di robot, e talvolta quando usciva, qualche conoscente la prendeva in giro. Da allora ha cominciato a diventare sempre più nitido il pensiero che, probabilmente, lei era diversa dagli altri, e non solo perché era “robocop”, come la chiamavano, ma anche per altri strani episodi che hanno caratterizzato la sua vita. Crescendo, spesso e volentieri si estraniava dalle compagne nelle sere d’estate, si allontanava e stava lì a guardare il cielo.
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Poteva sentire la vita nelle stelle, e restava lì a lungo, quasi come a voler sentire cosa volessero comunicare, quelle stelle così lontane. E quando tentava di spiegare le sensazioni che provava guardando il cielo alle sue amiche o amici, questi o non riuscivano a capirlo, oppure sorridevano. C’erano diverse cose che Estele non raccontava a nessuno e, se le raccontava, lo faceva sempre in modo generico: ad esempio un episodio in cui, guardandosi allo specchio mentre era da sola in camera, percepì qualcosa di estremamente negativo dietro di lei, allo stipite della porta e, quasi come se ci fosse stato qualcuno lì dietro ad osservarla, si girò di scatto per guardare, ma non vide nulla. Oppure, un altro episodio in cui, a 15 anni, sentì, seduta sul letto, a luci spente, un rumore continuo, ovattato, un po’acuto, che durò per 10 minuti, proprio come se ci fosse stato qualcosa fuori dalla finestra della sua camera. Una ragazzina 15enne, senza alcuna conoscenza particolare, non poteva concepire che lì fuori ci fosse stato un UFO… Eppure all’improvviso iniziò a pensare che sarebbe stato molto bello se loro fossero venuti a prenderla e a portarla via per un po’, affascinata da quello che immaginava di poter vedere da un veicolo del genere…  Oppure, un altro episodio, in cui, costretta a letto per via di una febbriciattola, Estele vide spegnersi davanti ai suoi occhi la televisione e la lampada del suo comodino, mentre poteva ben vedere, dal corridoio, che la lampada del salotto in cui si trovavano i suoi genitori era rimasta accesa.

Nonostante vari eventi strani, non sospettai mai di poter avere un problema di abduction, non erano argomenti che m’interessavano particolarmente o su cui fossi informata. Non sospettai nulla neanche dopo quello che mi successe un anno prima, a 14 anni, evento che solo ora posso interpretare in modo molto più chiaro. Stavo guardando un film di Stephen King, curiosamente intitolato The Night Flyer (il volatore notturno): eravamo agli sgoccioli, il protagonista si era rifugiato in una specie di aeroporto, era notte, e sapeva che il mostro nell’elicottero stava per trovarlo, e sicuramente l’avrebbe ucciso. Scappando qua e là, in una scena di forte tensione il protagonista vomita in un lavandino… e la stessa cosa successe a me: mi alzai e dovetti scappare in bagno a vomitare. Non fu quell’evento in sé ad essere strano: una circostanza del genere può capitare se si esagera col cibo; ma i giorni successivi, per un mese intero, mi svegliavo tutte le notti, alle 2.30 o alle 3 circa, tremando forte… provavo talmente tanto panico e nausea che ogni notte dovevo svegliare mia madre, la cui presenza mi consolava e mi faceva sentire protetta. Questi tremori passavano quando finalmente rimettevo tutto e tornavo a letto. Questa stessa scena si è ripetuta per un mese, finchè fortunatamente è passata, da sola.
Ma proseguiamo avanti, ai 17 anni. In quel periodo, una persona a me molto cara mi regalò il libro della biografia di Carl Gustav Jung, uno psicoterapeuta che fu a lungo considerato il diretto successore di Freud, ma che si discostò da lui tanto per alcuni diverbi circa l’interpretazione dei sogni, quanto per l’idea della finalità della terapia psicoanalitica. Per lui la terapia consisteva non nel dominare i contenuti inconsci abbattendo le rimozioni, ma nell’integrazione: integrare i contenuti più profondi e ancestrali con la componente cosciente di sé stessi. La sua vita mi affascinava, era un personaggio che aveva lottato da solo contro i suoi demoni e non aveva rinunciato neanche per un solo istante all’idea di percorrere la propria via interiore, col rischio di perdersi nel suo stesso inconscio. Il periodo delle sue riflessioni, della permanenza nella sua torre, con queste figure allucinatorie con le quali discorreva, con i tentativi di recuperare la sua natura più bambina riproducendo a 60 anni e più gli stessi giochi di quando era piccolo, mi sembravano qualcosa di eroico. Volevo imitarlo. Decisi allora di tenere con me un diario personale in cui annotavo le mie esperienze negative, in particolare quelle amorose. L’amore, infatti, è probabilmente l’emozione che ho esperito più di ogni altra cosa nella mia vita… l’amore nelle sue diverse forme, tanto costruttive quanto distruttive. E infatti, in quel periodo, stavo particolarmente male per un ragazzo, dunque scrivevo quasi ogni giorno.

Una sera, rientrata da un’uscita con gli amici, un po’ ubriaca mi misi a scrivere sul mio diario. Senza rendermene conto, mi addormentai scrivendo… la penna continuava a scorrere sul diario anche se io non ero più cosciente di muovermi. All’improvviso, rientrata in me mi accorsi di aver scritto delle cose, e che la mia scrittura si era improvvisamente modificata: mi spaventai tantissimo, chiusi tutto e corsi a dormire, non volendo rileggere i contenuti.  Nei giorni successivi, un po’ per capire meglio cosa stesse succedendo, un po’ per quell’aspetto di Jung che mi aveva colpita, decisi di ricreare ogni sera condizioni simili a quella precedente per poter continuare a scrivere nel sonno e far emergere ciò che era nascosto in me. Da ciò vennero fuori diverse lettere che erano un misto tra i sentimenti di tristezza e di vuoto suscitati dall’ambiguità di quel ragazzo che mi faceva soffrire, e dialoghi da cui emergeva un qualcosa che dichiarava di volermi proteggere. “Io ti voglio bene, ma vorrei capire chi sono”, vedevo scritto nel diario. Abbandonandomi a ciò che proveniva da me stessa, avevo sottovalutato il rischio della possibilità di perdermi nel mio inconscio o, in qualche modo, di rimanerne vittima. E infatti, quel periodo di introspezione lasciò i suoi segni: da allora incominciai a sentire delle voci. Erano voci particolari, non tanto per il tono o il timbro, che ricordo a stenti, quanto per ciò che dicevano. A volte denigravano le persone che io avevo davanti, altre volte invece denigravano me… ma la cosa che mi spaventava più dell’impossibilità di controllarle, era appunto cosa mi dicevano durante la notte. Ricordo che una notte ci fu un dialogo spaventoso tra queste voci che sentivo: mi dicevano di stare attenta, perché anch’io avrei potuto essere posseduta da Satana, e che il demonio sarebbe venuto  a prendermi a breve. Il diavolo era forse l’unica cosa che mi spaventava più di ogni altra cosa, per cui questo dialogo mi terrorizzò. Quella notte, a 18 anni, dovetti dormire con mia madre, per sentire una presenza sicura al mio fianco, senza che lei sapesse nulla di ciò che in quel momento io stavo sentendo. Sono stata molto fortunata: forse per la mia reattività psicologica, sono riuscita a far smettere completamente il fenomeno delle voci, grazie soprattutto all’aiuto di un ragazzo a cui volevo un gran bene e che ringrazierò sempre, nonostante la sofferenza che mi ha procurato nel tentativo di far cessare quegli episodi.

Da tutto questo è venuta fuori una persona molto più cosciente, per certi versi un po’ logorata da tante altre esperienze, assieme  a queste appena condivise con voi lettori. Una persona che, pur non avendo saputo nulla di Anima sino ai 25 anni, si è sentita dire spesso frasi del tipo “tu sei l’anima più bella che conosco”. Ad oggi, se chiedo ai miei amici più cari di dirmi quante persone conoscono che mi somiglino, mi rispondono: “nessuna”.

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